Negli ultimi mesi ho sentito tutto ed il contrario di tutto sulla riforma italiana del mercato del lavoro. Ai detrattori delle misure intraprese dal Governo Renzi, si sono contrapposti gli entusiastici, che hanno visto nel jobs act la panacea di tutti i mali. Al di là delle opinioni meramente politiche, a contare sono i fatti, e se è pur vero che il jobs act è un’effettiva riduzione delle tutele dei lavoratori, è altrettanto vero che ogni provvedimento va contestualizzato e ricondotto al tempo in cui viene adottato. E’ difficile parlare di minor tutela per chi di tutele non ha mai sentito parlare. Mi spiego meglio: è certamente preferibile un contratto a tutele crescenti in luogo di un contratto a tempo determinato o, ancor peggio, del c.d. lavoro sommerso. Se poi il paragone viene fatto tra un contratto a tempo indeterminato “vecchio stile” e l’attuale contratto a tutele crescenti è chiaro che le cose cambiano. E’ indubbio infatti che con il jobs act il datore di lavoro ha la possibilità di monetizzare preventivamente la condanna inflitta dal giudice in caso di licenziamento ingiustificato del dipendente. Conseguentemente l’imprenditore è più libero d’agire secondo logiche che precedentemente venivano influenzate da esiti processuali incerti sui quali gravava spesso e volentieri lo spettro della reintegra del lavoratore ingiustamente licenziato. Questa libertà, che molti – i sindacati su tutti – hanno giudicato inammissibile, è però la carta che assieme agli sgravi fiscali per le nuove assunzioni a tempo indeterminato e per le trasformazioni di contratti a tempo determinato ha consentito di stabilizzare migliaia di persone dal destino incerto e di far prendere una boccata d’aria ad un mondo del lavoro in grande sofferenza. Non basta, è vero, stabilizzare non significa creare nuova occupazione. Ma in un panorama nazionale dove non solo non vengono creati nuovi posti di lavoro ma addirittura si perdono quelli che già esistevano, la stabilizzazione dei precari va colta come un segnale più che positivo.