Finito il supplizio degli esami di opportunità il mondo era pieno e quello che dovevo fare era semplicemente raccoglierle e trasformarle in oro colato come un giovane Re Mida.  Potevo avere il mondo tra le mie mani. Comunque, prima di andare a  spaccare il pianeta, mi presi una ventina di giorni per decidere da dove iniziare a picconare il muro del lavoro. Volevo fare l’avvocato? Il consulente d’azienda? O magari aprire un bar? Non ne avevo la minima idea quindi, tanto per guadagnare un po’ di tempo, decisi d’iscrivermi all’Albo dei praticanti legali. Da come avevo appreso all’università, per iniziare la famigerata pratica biennale, avrei dovuto trovare un “dominus” pronto ad accogliermi. Il che non doveva essere facile – pensavo 

Ricordo i fatti come se tutto fosse accaduto ieri. Era il 19 ottobre 2008 quando misi piede per la prima volta al Tribunale di Bologna. Un edificio enorme, vetusto e plumbeo come pochi. Incuteva quasi timore reverenziale. All’interno non era meglio. Decine di persone si muovevano con fare frenetico senza ben sapere dove andare, come tante piccole formichine all’interno di una scatola da scarpe. Le formichine maschio indossavano tutte un impeccabile gessato grigio-topo mentre le formichine femmina, belle come mantidi religiose, mostravano i loro tailleurs alla Margaret Thatcher con orgoglio e serietà. Mi guardavo attorno spaesato, cercando con gli occhi qualche anima pia che si accorgesse del mio smarrimento. E solo la consapevolezza che nessuno mi avrebbe aiutato mi diede la forza d’avventurarmi oltre. Cominciai a salire le scale, ad ogni piano era come se dovessi affrontare un nemico. Cancelleria Civile, Cancelleria Lavoro, Cancelleria procedimenti sommari, GIP, GUP…ma dove diavolo sarà l’O.d.A? Lo trovai al quinto piano. Avevo la camicia zeppa di sudore ed il fiato corto. Bussai timoroso fino a che una voce secca e roca mi invitò ad entrare. La segretaria dell’Ordine degli Avvocati era una donna scheletrica. Occhiaie profonde come solchi nell’asfalto segnavano un viso truce e spigoloso. Non riuscivo a proferire parola e fu lei, con i suoi modi estremamente garbati a rompere il ghiaccio. 

“Che vuoi?”

“Ehm, buongiorno signora, avevo intenzione di iscrivermi all’albo dei praticanti ma, non avendo ancora un dominus, volevo sapere se avete un elenco d’avvocati che cercano praticanti”

Mi fissò severa e sbuffando come un ippopotamo congolese si mise a battere sulla tastiera del computer. Dopo un paio di  minuti – tra borbottii e tic nervosi – stampo’ alcuni fogli che mi porse con fare stizzito.

“La ringrazio moltissimo signora. Arrivederci”

– Obiettivo centrato – pensai tra me e me, e svanii dalla porta come un illusionista. La lista era corposa di nomi ed indirizzi. Erano in tanti a cercare un praticante ed io potevo essere proprio quello di cui avevano bisogno. Nei giorni seguenti alla mia prima traumatica esperienza in Tribunale riuscii a fissare vari appuntamenti. Tutti gli avvocati con cui parlavo mi rispondevano con tono affabile e cortese ed ero positivamente meravigliato da tale atteggiamento. Molti dei miei amici che già lavoravano mi avevano descritto il loro universo lavorativo come una sorta di regno del male, ma avevo iniziato a pensare che forse esageravano. Forse erano loro ad essere degli scansafatiche che spacciavano puro menefreghismo per altrui maleducazione. Magari contavano frottole per mascherare la loro poca voglia di lavorare.

Il primo studio che vidi fu quello dell’Avv. Salvioni. Salvioni era un uomo canuto di mezza età, tracagnotto e baffuto. Una specie di Gabibbo in carne ed ossa che, ictu oculi, ispirava simpatia e cordialità.

“Allora giovane, dal tuo curriculum vedo che ti sei laureato con un buon 102, bene..bene..bene…. quando vuoi iniziare?”

Ma di già! Avevo già fatto colpo? Possibile? – pensavo esterrefatto.

“Guardi, io sarei disponibile anche da subito. Mi rimangono solo pochi giorni per iscrivermi all’Albo ed evitare di perdere un anno quindi vorrei iniziare al più presto…comunque… Lei si occupa di civile, penale, amministrativo? Insomma: che tipo di cause tratta?”

Mi guardò come un nobile cavaliere il suo stolto e sciocco scudiero e con l’occhio di chi sa di saperla lunga esclamò:

“Ascolta giovane, io tratto di tutto…civile, penale, amministrativo, tributario, internazionale, costituzionale, navale, aerospaziale, immorale ed anche del paradossale. Tu devi sapere che qua é come un supermercato e devo vendere più generi alimentari possibili per campare, capisci?”

“Veramente no”

“Ragiona. Se io mi occupassi solo di penale credi che riuscirei a portare a casa la pagnotta? Chiaramente no, testina. Allora sveglia giovane! impara tutto e fai di tutto perché qua il grano é poco e le gazze ladre tante!”

Ma chi sono queste gazze ladre e perché il grano é poco? Un mucchio di domande mi frullavano per la testa e a pelle decisi che l’Avv. Salvioni non era l’uomo giusto per me.

Il concorrente successivo fu l’Avv. Mikaela Bocchino. A catturare la mia attenzione fu il fatto che si occupava – stando al suo website – di diritto comunitario ed internazionale. Mi ero laureato con una tesi sul “Principio di non-discriminazione nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo” ed adoravo tutto ciò che mi facesse assaporare – giuridicamente parlando – concetti al di là degli italici confini. Suonai ripetutamente il campanello del suo studio di Via delle Moline quando finalmente qualcuno mi aprì il portone. Cinque rampe di scale, quattro bestemmie e tre litri di sudore più tardi, ebbi l’onore di conoscere Mikaela Bocchino. Era una donna sulla quarantina. Il viso incartapecorito e la dentatura accavallata e giallognola, rendevano complesso riuscire a parlarle guardandola negli occhi. Ma ormai ero in gabbia e dovevo cercare di tenere duro. Dialogammo per circa un’ora. Fece moltissime domande su di me. Sul se avessi una ragazza, sul se facessi palestra, sul se i miei bellissimi occhioni blu avessero fatto palpitare i cuori di tante fanciulle. Non mi era ben chiaro se mi trovassi ad un provino di Maria De Filippi o ad un colloquio di lavoro. E quando la mummia appoggiò delicatamente il suo artiglio destro sulla mia coscia sinistra, il recondito pensiero che avevo avuto sin dal mio ingresso in quello squallido boudoir divenne certezza: l’Avv. Mikaela Bocchino mi si voleva fare. Altro che Unione Europea. Altro che trattati bilaterali e Convenzioni sui diritti umani. Qui l’unica cosa che avrei potuto imparare era la parte di Dustin Hoffman ne “Il laureato” e, ad onor del vero, l’avvocato Bocchino non aveva proprio le parvenze della bella Miss Robinson. Mi dispiace Mikaela, ma non sarò io a toglierti le ragnatele dal ventre, au revoir ma belle cessò.

A quel punto il terzo tentativo doveva esser quello buono. Primo perché ne avevo abbastanza di ladri e puttane. Secondo perché sentivo dentro di me che allo Studio Legale Cornia avrei trovato la pace dei sensi.Il Prof. Avv. Edgardo Galeazzo Cornia era di nobili natali. Doveva essere sui 65 anni ma, a giudicarlo onestamente, ne dimostrava molti di meno. Il capello fluente e brizzolato e l’aria da uomo vissuto, incutevano un certo rispetto. Aveva le mani grandi e tozze, con grossi anelli infilati alle dita. Ma il suo aspetto fisico era niente al confronto dell’effetto che mi aveva fatto leggere per la prima volta il suo nome sulla targa attaccata davanti all’ingresso del suo palazzo. Mi fece subito una grande impressione perché, proprio sul lato del muro all’immediata sinistra del portone, era stata inchiodata una gigantesca lastra dorata che recava il suo nome a caratteri cubitali. Le misere targhette degli altri inquilini, professionisti certo di indubbia fama anch’essi, erano attaccate in fila qualche centimetro sopra la sua. Ma i nomi degli altri, un dentista e altri due avvocati, non venivano quasi notate dall’occhio superficiale del primo venuto, poiché la targa del Cornia concentrava su di se tutta l’attenzione. La lastra era lunga circa cinquanta centimetri e alta quasi altrettanto. Sopra di essa erano incisi il suo nome e il titolo. Le parole “Studio Legale avv. E. Galeazzo” erano impresse in alto con caratteri più piccoli, mentre al centro CORNIA prendeva lo spazio di mezza parete. Nel cortile del palazzo notai quattro macchine in fila. In ordine erano una porsche, una jaguar, una mercedes e un’altra porsche. Per un instante soltanto sognai di diventare un giorno come lui. Aveva due segretarie, l’Avv. Prof. Edgardo Galeazzo Cornia, entrambe in possesso d’un fascino capace di rubare sguardi arditi e pensieri anti-clericali. Mentre il resto della combriccola era questa: due giovani rampanti avvocati, un collega praticante che sembrava uscito da un quadro di Monet ed un’avvocatessa costipata col broncio da “prima della classe”. Tutto regolare riflettei. Edgardo ci sapeva fare, stando agli sghei che doveva macinare come legale. Tutto sommato il suo castello poteva essere un buon rifugio dove iniziare la scalata alla vetta. E così di li a due giorni mi ritrovai tra faldoni e scartoffie con un computer la cui ventola rumoreggiava come un trattore dal motore sbiellato. Ma è così che si comincia pensai. Lavori duro e i risultati arrivano.

 Le giornate trascorrevano una dopo l’altra allo Studio Cornia e stavo diventando un vero specialista della fotocopiatrice. Pinzavo e spinzavo, scandivo e rimpicciolivo. Ero un drago delle copie e del fronte-retro. In più stavo acquisendo una certa forma fisica. Non passava mattinata senza che mi toccasse andare in Tribunale, facevo su e giù per le scale del Palazzaccio più di tre o quattro volte al giorno ed i miei quadricipiti avevano assunto rinnovato vigore. Ma non era solo il  fisico a godere di tutta quell’attività così frenetica ed intellettualmente stimolante. Ore ed ore di interminabili code quotidiane nelle varie cancellerie forgiavano la mia pazienza rendendola pari a quella di un monaco tibetano. Stavo raggiungendo la serenità del nirvana e gli improperi che udivo da parte di chi era in coda dietro di me non mi facevano oramai ne caldo ne freddo. Stavo mutando in qualcosa di metafisico. Un Jonathan Livingston libero di planare sino all’ufficio sentenze e di spiccare il volo per l’ufficio ritiro fascicoli di parte. Ed anche il lato economico aveva le sue soddisfazioni. Il prode Cornia era tanto prodigo di consigli quanto parco di moneta sonante. Di euri non ne vedevo neppure con il binocolo e gli unici baiocchi che passavano tra le mie dita erano centellinati per contributi unificati e marche da bollo. Talvolta, quando la Dea Bendata mi ammiccava, scoprivo che le segretarie meretrici avevano errato nel foraggiarmi per marche e contributi e, con triste stupore, realizzavo amaramente che l’errore eccedeva sempre e dico sempre per difetto.

E così la pratica illegale continuava goccia dopo goccia a penetrarmi sin dentro le budella. “Gutta cavat lapidem” dicevano i latini ed avevano ragione da vendere. Il mio ottimismo iniziale stava pian piano cedendo il passo al realismo bene informato, insinuando in me il seme del dubbio sul fatto che chi prima di me s’era addentrato nella boscaglia lavorativa forse non esagerava affatto nelle sue terribili disamine a tema. La speranza a poco a poco divenne rassegnazione allo sfruttamento poiché non solo non guadagnavo nulla ma, culturalmente parlando, non stavo apprendendo granché. Fortunatamente a rendere le mie vicissitudini lavorative meno amare ci pensò uno dei due giovani e rampanti avvocati del Cornia. Guido Busi si era laureato alla Sapienza ed era approdato a Bologna per via di certi suoi legami sentimentali. Pure lui, sebbene già avvocato, viveva nella miseria  guadagnando si e no quel tanto che gli bastava per pagarsi l’affitto d’una singola in Via San Petronio Vecchio. Riuscendo a sopravvivere solo grazie all’aiuto dei suoi genitori. Dopo un annetto vissuto al limite dell’esaurimento nervoso, Guido Busi aveva capito che doveva cercare di far buon viso a cattiva sorte. Il Cornia non avrebbe mai cambiato atteggiamento – lo sapeva bene – e le sue prospettive di crescita economica erano pari a zero in quello studio. Ma non aveva dove andare e poi, diciamocelo chiaramente, il  cambiamento può significare tanto migliorare quanto finire in peggio. Ed a finire a far la parte dell’arrosticino abruzzese il mio amico Guidone proprio non ci teneva. Quindi le cose erano due: o essere schiavizzato a vita come un africano in Alabama ai primi del ‘900  o curare i propri interessi nell’anonimato, vivendo in quella prigione di vetro, cercando di evadere ad ogni occasione opportuna. Guido scelse la seconda e da allora nel mio immaginario quel simpatico avvocato romano che all’apparenza poteva sembrare il classico figlio di nessuno divenne un rapace di raro cinismo, abile nel mimetizzarsi e rapido nel dissolversi nel nulla.

In studio usavamo un software, uno di quelli da cinquemila euro di licenza annuale. Con quello strumento terribile potevi sapere con largo anticipo gli spostamenti di ogni singolo membro della banda Cornia, Galeazzo compreso ovviamente. Ed erano proprio gli spostamenti del nostro prode titolare che l’Avv. Busi monitorava con lo zelo d’un capitano dei Corpi Speciali sulle tracce di un boss mafioso. Sapeva tutto del Cornia. Le sue riunioni in Consiglio Comunale, i suoi incontri con facoltosi clienti compagni di golf e gli innumerevoli  pranzi con giovani ed avvenenti sirene della Bologna bene. Grazie al suo pressante pedinaggio informatico, Guidone se la squagliava ad ogni buona occasione, ritagliandosi ore e pomeriggi per sé e la sua bella. Meeting di lavoro in Via del Pratello di fronte ad un’ottima Augustiner e colazioni al caffé Zamboni che duravano un’eternità. Così facendo il suo colorito cadaverico aveva assunto tinte rosacee. Il suo spirito era rinato ed il sorriso stampato in volto era la prova tangibile che finalmente era tornato a nuova vita. In studio ormai l’avevamo soprannominato Beep Beep: il celebre Geococcyx Californianus del cartone “Willy il Coyote” noto  per le sue qualità di velocista. Fatto sta che io invidiavo il suo sfacciato libertinaggio. Il suo essere così maledettamente paraculo. Doti innate che inizialmente vengono tenute nascoste, ma che alla lunga emergono prepotentemente lasciando gli stacanovisti come me con un palmo di naso. Potrà sembrare strano, ma pur senza retribuzione e con un tutoraggio praticamente inesistente, mi sentivo caricato di responsabilità per i compiti che mi venivano affidati. Io non riuscivo a sbattermene come Beep Beep. Tanto più che ogni sei mesi Cornia doveva firmarmi il sacro libretto del praticante avvocato e senza il suo sigillo l’O.d.A. non mi avrebbe mai convalidato quei mesi di schiavitù. Ad ogni modo, dopo sette mesi di colossale sbattimento, il Cornia mi scrisse una mail:

Da: eddygale@studiolegalecornia.it

A: enricobraglia@studiolegalecornia.it

Oggetto: Pratica Mergaglioni c./ Ditta Tartuferi – Ns. ID 1108

Caro Enrico;

apri la pratica Mergaglioni a tuo nome (ormai é ora). Prepara il fascicolo, scadenza gli adempimenti sul software, scrivi la racc. a/r e imposta il ricorso per decreto ingiuntivo. Mi raccomando di darci dentro campione!

Avv. Edgardo Galeazzo Cornia

(Patrocinante in Cassazione)

Come mai tutto d’un tratto da addetto alla fotocopiatrice ero diventato addirittura responsabile d’una pratica? Forse un premio per il mio umile ma importantissimo lavoro da gregario? L’apprezzamento da parte del mio “dominus” per la fedeltà dimostrata? Niente di tutto questo. Le illusioni sono belle però ben diversa é la realtà. Fatto sta che circa quattro mesi prima, la “prima della classe”, durante una vacanza in Giamaica, ci aveva dato dentro con un rasta fari del luogo rimanendone inguaiata. In pratica era tornata con la pagnotta nel forno ed era palese che il suo rendimento di lì a poco sarebbe drasticamente diminuito. Quindi il ragionamento del Cornia era stato semplice: se la tipa deve sgravare, il praticante devo caricare. E da lì in poi fu un’ escalation di recuperi credito e pignoramenti da portare a termine. Chiedevo provvisorie esecuzioni, interessi di mora, rimborsi forfettari, cnap e Iva al 20%. Il tutto con contorno di note spese da infarto. E se poi, recuperato o meno il credito il cliente non sganciava, via a tutta birra all’Ordine degli Avvocati a farsi vidimare le parcelle per l’attività svolta. Non per essere venale, ma torno a dire che benché non fossi più il mozzo della situazione, di pecunia continuavo a non vederne, mentre Galeazzo navigava a gonfie vele. Onestamente iniziavo a dubitare del mio percorso: ne valeva realmente la pena? Che me ne facevo del titolo se poi non riuscivo a crearmi il mio parco-clienti? Le parole dell’Avv. Salvioni stavano pian pianino riaffiorando tra i miei ricordi assumendo quel significato che all’ora m’era sfuggito: “… perché qua il grano é poco e le gazze ladre tante” Effettivamente di Cornia pronti ad accaparrarsi tutto il malloppo col sudore degli altri ce n’erano a bizzeffe, e non ero certo d’essere psicologicamente preparato a diventare uno squalo del potere. Non volevo genuflettermi di fronte al Demonio dell’Ingiustizia ed il motto “mors tua vita mea” mi dava sinceramente il voltastomaco. Inutile dirvi che continuavo ad inviare curricula a destra e a manca con la speranza di trovare qualcosa di un po’ meno sporco del lavoro che stavo svolgendo. Eppure niente, era una processione di “le faremo sapere” o “adesso non abbiamo necessità della sua figura” indi per cui rimasi avvinghiato tra i tentacoli di quel sant’uomo. Il lavoro aveva anche qualche aspetto divertente. Alle volte mi capitava di scrollarmi di dosso gli abiti del precario sfruttato e diventavo da un momento all’altro, come per incanto, un investigatore privato. Più scaltro del tenente colombo operavo indagini sul conto di oscuri personaggi, i cui nomi erano associati a società fittizie. Una volta ad esempio avevo dovuto fare un lungo giro di telefonate per scovare un debitore, per poi scoprire che questi era un delinquente che avevano trovato morto in un paesello del sud. Qualcuno lo aveva accoppato e infilato dentro al bagagliaio della macchina. Pace all’anima sua. Un‘altra volta invece avevo dovuto cercare di scagionare un tizio che era finito sotto processo per incendio colposo. Era un contadino che per pulire un capannone aveva avuto la bella idea di raccogliere quattro sterpi e dargli fuoco. Era rimasto a fissare le fiamme come un allocco fumandosi una sigaretta. Ma siccome tirava vento, alcune scintille erano schizzate fuori dal falò, dando luogo ad un principio d’incendio che piano piano aveva preso campo. Il capannone era bruciato e le fiamme s’erano propagate ai prati circostanti. Poi erano arrivati i pompieri e tutto era finito in un’orgia d’acqua.

Il 22 luglio 2009 partecipai alla mia prima cena di lavoro. La classica cena estiva prima della sospensione dell’attività giudiziaria. Isoletta felice compresa tra il 31 luglio ed il 15 settembre d’ogni anno, quando lo stress di mesi di lavoro si spegne progressivamente come la debole fiamma d’una candela. M’ero messo di tutto punto. Pantalone beije, mocassino tipo yatch e camiciola celeste. Posso tranquillamente dire senza falsa modestia che facevo la mia porca figura. Il Cornia aveva prenotato in un fantomatico ristorantino chiamato “La Buca” e tutta l’equipe-legale doveva trovarsi lì alle 20.30 in punto. Arrivai con cinque minuti d’anticipo ed erano già tutti presenti, radunati a ciarlare amabilmente del più del meno. Dopo i saluti di rito entrammo nel ristorante. Non nascondo il lieve imbarazzo nello scoprire che “La Buca” era una trattoria di terz’ordine piccola e stantia, dove rumori assordanti di stoviglie impedivano qualsiasi tipo di comunicazione. Il cameriere, un omone nerboruto con barba nera e fazzoletto rosso fuoco piratesco, ci fece accomodare in un tavolaccio spartano e leggermente untuoso, dove trovammo posto tra mille difficoltà e con gli auguri di finire all’inferno da parte della tavolata di fianco che dovette alzarsi per fare spostare il tavolo. Tra lo stupore generale l’unico ilare risultava il nostro padrone. Contento e sornione si guardava attorno compiaciuto ed ebbe anche il coraggio di dirci: “Visto dove vi ho portati?”. Ora per carità, non pretendevo mica d’andare al Diana di Via dell’Indipendenza. Però, considerato il fatturato del Cornia e le infime retribuzioni di cui godevano i suoi servi – eccetto me che mi sarei sentito onorato di ricevere una retribuzione per quanto infima fosse – mi sarei aspettato un ristorantino di classe degno del conto in banca del nostro filantropo. Invece no. L’ennesimo coup de theatre della mia pratica illegale. L’aria de “La Buca” era satura dell’odore di fritto che proveniva dalle sue limitrofe cucine e si faceva una fatica bestia a non chiedere una mascherina per respirare. Ci fissavamo attoniti e solo Beep Beep osò iniziare una poco credibile conversazione a proposito del gusto dell’Avvocato per i ristorantini caratteristici. Manco a dirlo il menù era già prestabilito. Tutto per non superare la cifra che certamente Galeazzo s’era prefissato. E così demmo inizio alle danze tra affettati, verdure, formaggi e del pessimo San Giovese ad innaffiare il tutto. Per evadere spiritualmente da quell’ignobile serata decisi di darci giù col vino e di prendermi una di quelle “togne” indimenticabili. Nel delirio generale le due belle segretarie cinguettavano tra loro esibendo i loro décolletés ottimamente forniti, a cui non potevo fare a meno di sbirciare con cupidigia. Ed intanto gli davo giù con tigelle e San Giovese per dimenticare dove fossi e trovare riparo da quell’atmosfera grottesca. Le parole dei vari commensali mi arrivavano lontane ed incomprensibili. L’altro praticante, sedeva di fianco a me con l’aria compita e lo sguardo assente, come un robot privo d’anima dal panciotto verde salvia e dai bottoni in oro massiccio. Era una situazione surreale. Non credo di dire un’assurdità nell’affermare che nemmeno la N.A.S.A. sarebbe stata capace di riunire esseri viventi tanto differenti tra loro allo stesso desco.  Una sorta di riunione delle varie galassie legate assieme dall’unico filo conduttore possibile: quel gran figlio di puttana del Cornia. Non ci stavo più con la testa. Dopo gli spiedini di maiale raggrinzito e le patate novelle inzuppate nell’olio motore, iniziai a vedere sfuocato e tutto mi parve ancora più psichedelico ed assurdo. Credo anche che la “prima della classe” mi avesse rivolto in quell’occasione alcune domande personali, ma dubito di averle risposto a tono o quantomeno in modo coerente. Avevo lo stomaco in subbuglio ed una strana sensazione di spinta proveniva dagli angoli più remoti del mio corpo tanto culinariamente bistrattato in quell’apocalittica serata. Che gran pere avevano le segretarie. Ero ipnotizzato e catatonico quando di colpo, tutto ciò che avevo ingurgitato nell’ultima ora e trenta, rischiò di traboccare dalla mia cavità orale per andare ad ornare con nuovi colori il tavolaccio de “La Buca”. Fortunatamente, in un momento di rara lucidità, riuscii a guadagnare il bagno ed a chiudermi dentro per dare sfogo ai miei istinti primordiali. Ripresomi dalla botta tornai tra i commensali, con il volto smunto di chi sa di avere dato tutto. Arrivammo così al dolce. Un pessimo tiramisù surgelato che onde evitare il tracollo fisico, evitai accuratamente di osservare anche solo di sbieco. Galeazzo intanto rideva sguaiatamente. Raccontando aneddoti vari sulle sue conquiste giovanili e ripetendo a tutti che con l’impegno si possono raggiungere traguardi inaspettati. Che gran banditore di baggianate – pensavo – beato tu Guidone che riesci a battertela giornalmente. Io devo scappare, questo non può essere il mio destino. Devo fuggire prima che sia troppo tardi e ritrovarmi come Giacomo Galassi. L’altro giovane rampante avvocato che aveva scelto la prima via. Quella del delfino schiavizzato privo d’orgoglio e d’autostima. Capace, ad un solo cenno del proprio carceriere, di gettarsi  tra le fila nemiche per guadagnare un unico gesto di approvazione. Un solo complimento fasullo del Cornia che potesse dare un senso a quella vita grama dietro alle quinte, facendo da comparsa in una commedia di cui mai e poi mai avrebbe fatto parte. Giunti al caffé ed all’ammazza-caffé trovai il coraggio di alzarmi e congedarmi dall’allegra combriccola. Dopo vani quanto fasulli tentativi del “capo” di convincermi a restare raggiunsi con passo sbilenco il mio pandino bianco latte e ripartii di gran carriera verso casa. Le vene del mio cranio pulsavano freneticamente e nel traffico bolognese mille riflessioni saturavano i mie pensieri. Così non potevo andare avanti ed a costo di andare incontro a peggiori disavventure sarei saltato nel buio. Avrei trovato un altro studio e completato il mio secondo anno di pratica illegale. Sarei diventato un Avv. rendendo orgoglioso tutto il parentado. Con la triste consapevolezza che i titoli molto spesso sono solo parole vuote prive di significato. Un’affermazione apparente del proprio io mascherata da falsi ideali, da falsi propositi e da falsa onestà. Eppure di una meschina tavolata io avrei ancora fatto parte.

Trascorsa l’estate iniziai a tramare il mio diabolico piano. Sul fatto che dovessi andarmene non avevo più dubbi. La questione ora, era di farlo senza patire probabili ripercussioni da parte del vendicativo “dominus”. Perché oltre ad esser degli squallidi negrieri, i tipi come l’Avv. Edgardo Galeazzo Cornia sono anche estremamente pericolosi. Potrebbero tentare di metterti i bastoni fra le ruote solo per puro divertimento. Solo per passare il tempo in modo diverso e disumano. Ma io questo lo sapevo, e con me il caimano non ce l’avrebbe fatta. Appena firmato il libretto me la sarei filata dando la paga allo stesso Beep Beep. Pungere come un calabrone e schivare come una zanzara, ripetevo come un ossesso. Le giornate trascorrevano placide e serene. Pignoravo, fotocopiavo ed intimavo. Non badavo nemmeno più alle tette delle segretarie tanto ero preso dalla voglia di fuggire. La pancia della “prima della classe” cresceva a dismisura e non sarebbe passato troppo tempo prima che decidesse di ritirarsi per almeno 5 o 6 mesi a vita privata. Ergo dovevo agire e dare una bella spallata alla gazza ladra. Mi spiaceva solo per Guidone. Col venire a mancare di due collaboratori non avrebbe più potuto fare il bello ed il cattivo tempo senza subire le ire del Cornia. Ma “c’est la vie mon ami”, non potevo rischiare di farmi schiacciare in un modo così atroce e terribile. Volevo vivere e la mia libertà sarebbe costata quella dell’Avv. Busi. Era un prezzo che ero disposto a pagare. Così un bel giorno, al compimento del mio ventiseiesimo compleanno, decisi di attivare la trappola. Portai un bel vassoio di pasticcini ed un paio di bottiglie di ottimo spumante ed  invitai i carissimi colleghi a condividere con me quel raro momento di felicità. Mi fecero tutti auguri calorosi. Strette di mano, baci sulle guance da parte delle avvenenti segretarie, di tutto e di più.  Quando poi, dopo avere consumato avidamente i pasticcini tutti si dileguarono, chiesi al Cornia 5 minuti del suo tempo per firmare le mie carte. Questi, rabbonito dai bon-bon alla crema che grazie alla mia generosità si era appena sbafato, non ebbe lontanamente a pensare che quelle firme apposte due mesi anzi tempo rispetto alla scadenza del mio secondo semestre di pratica potessero decretare la mia dipartita. E così firmò la mia liberazione. Le catene erano state sciolte ed ero tornato ad essere il gabbiano Jonathan Livingston. La sera festeggiai con alcuni amici abruzzesi, che con me condividevano il “sogno bolognese”.

“Ah Enrì: gliel’hai detto ‘nculo ammammeta all’avvocà?”

“ O Frà, mannaccia all’anima de chi te muorte, glielo dirò via mail al bastardo”

Che momento indimenticabile. Ed il meglio doveva ancora venire. Perché se non scrissi un insulto al Cornia sulla mail delle mie pseudo-dimissioni, poco ci mancò. L’indomani mattina la prima cosa che feci fu sedermi tra faldoni e cartacce ed accendere il computer dal processore sbiellato. Sorridevo come un ebete all’idea di ciò che stavo per fare, e quando finalmente aprii l’outlook-express, iniziai a digitare sulla tastiera con l’abilità d’un navigato pianista.

Da: enricobraglia@studiolegalecornia.it

A:  eddygale@studiolegalecornia.it

Oggetto: Ormai é ora!

Caro Avv. Edgardo Galeazzo Cornia;

con la presente sono a comunicarLe la mia volontà di intraprendere nuovi percorsi professionali (ormai é ora). Nonostante lo stimolante ambiente nel quale ho lavorato grazie alla di lei disponibilità, e nonostante io abbia imparato molto durante questa esperienza, la mia decisione é di proseguire la mia carriera fuori dal suo studio. Pertanto, ringraziandoLa di cuore per tutto quanto da Lei fatto nei miei confronti, la saluto cordialmente augurandoLe il meglio per il prosieguo della sua attività.

Dott. Enrico Braglia

Schiacciai invio e feci  per guadagnare l’uscita.

“Enrico, allora oggi dovresti comprare tre marche da 8,60, due contributi da 170 ed uno da 35”

Una delle procaci segretarie squittiva in maniera irritante. Spronandomi ad assolvere quelle che, fortunatamente, non erano più mie incombenze.

“Poi l’Avvocato mi ha lasciato alcuni fascicoli da aprire di cui ti dovresti occupare. Prepara le raccomandate ed imposta i ricorsi okkei?”

La guardai con comprensione e dolcezza per l’ultima volta. Consapevole da pochi secondi di quello che avevo appena fatto e che lei ancora ignorava. Quindi, con passo lento, mi avvicinai alla sua scrivania.

“Queste sono le chiavi. Addio!”